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“Blockade Billy” di Stephen King. La storia inquietante di un prodigio del baseball

di Stefano Duranti Poccetti

Prima o poi il confronto con lui doveva arrivare e credo non sarebbe mai giunto se non ci fosse stato di mezzo il baseball. Sto parlando di Stephen King, Autore che non avevo mai approfondito, perché, pur riconoscendone l’ingegnosità e la grandezza, non ero mai riuscito a portare a termine un suo libro, per il semplice fatto di essere troppo sensibile verso contenuti angoscianti, che sempre fanno parte del suo repertorio noir.

Stavolta però non mi sono tirato indietro, troppo incuriosito di leggere il suo unico testo dedicato al baseball, vale a dire Blockade Billy (Blocco Billy), trovato finalmente tradotto in italiano nell’antologia Il bazar dei brutti sogni (Sperling & Kupfer, 2017), curata da Loredana Lipperini, qui dove si trovano ventuno storie di King, tra cui quella in questione.

Qui lo scrittore appare in prima persona, andando a intervistare in una casa di riposo Granny, quello che fu negli anni Cinquanta uno dei coach della squadra di Major League dei Titans, i quali, trovandosi senza ricevitore – dopo che uno è stato messo in prigione e un altro è stato reso invalido da un brutto infortunio –, chiamano nel team il misterioso William Blakely, un ragazzotto semplice e di campagna dalla strana personalità. Infatti favella da solo dietro il piatto, parlando di sé in prima persona, rispondendo alle domande dei compagni semplicemente replicando le stesse parole, portando sul pollice un enigmatico cerotto, nonostante il dito non abbia ferite. Quel giovane però dimostra fin da subito il suo talento, battendo valide e fuoricampo, divenendo famoso soprattutto per il suo modo quasi assassino di difendere casa base, accettando sempre lo scontro con il corridore, avendo sempre la meglio. Da qui il soprannome “Blockade Billy” con il pubblico che allo stadio lo inneggia, alzando cartelli con scritto “STRADA CHIUSA!”, permettendo così a William, in appena un mese di gioco, di diventare la vera star dell’American League.

D’altra parte King, a proposito della violenza del baseball di quegli anni, scrive nell’introduzione: “Ho sempre adorato il baseball, e volevo scrivere di […] quando il baseball era brutale come il football, quando i giocatori arrivavano in scivolata sulla seconda base con i tacchetti sollevati, e gli scontri sul piatto erano prevedibili, e non venivano considerati fallo.”

William stringe amicizia con Danny Doo, l’arrogante lanciatore che mira a giungere alle duecento vittorie in major per entrare della Hall of Fame e che vede il ragazzo come un portafortuna. Peccato che dovrà fermarsi a quota centonovantanove, colpito in testa da una line che lo costringerà a ritirarsi dallo sport.

“C’era qualcosa di strano in lui. Qualcosa di inquietante, che metteva le persone a disagio… ma che al tempo stesso le spingeva a volergli bene. Una specie di dolcezza. Qualcosa che te lo faceva piacere anche se gli mancava qualche rotella. Joe DiPunno capì subito che non era a posto. E anche qualcuno tra i giocatori, ma questo non impedì loro di accoglierlo nel gruppo. Non so… era come se, quando parlavi con lui, ti tornasse indietro il suono della tua voce. Come l’eco in una caverna.”

Questo passo mette in luce l’arcana personalità del protagonista, con il manager Joe DiPunno non proprio convinto che il giovane porti fortuna, qui dove si evince lo stile sempre impeccabile di Stephen King (la traduzione perfettamente riuscita è di Chiara Brovelli), capace di creare un crescendo che tiene in suspence per tutto il racconto.

Nel finale, proprio durante l’ultima partita della stagione, vengono finalmente alla luce gli orribili fatti: William Blakely è in realtà Gene Katsanis, cresciuto in un orfanotrofio e poi entrato come garzone nella famiglia Blakely. Il vero William era insomma il figlio dei genitori dai quali Gene lavorava e anche lui stesso giocava a baseball, avendo però meno qualità di Gene, soprattutto in battuta. La famiglia Blakely aveva cominciato a invidiare il talento del giovane, al quale evidentemente avevano cominciato a fare qualche dispetto, tanto è vero che un giorno Gene si sveglia e decide di sterminare tutta la famiglia, comprese le vacche, nascondendo i corpi nel granaio. Katsanis si era così finto, forte della somiglianza fisica, William Blakely, che era stato chiamato a giocare ai Titans, riuscendo per un mese a coprire tramite degli stratagemmi il misfatto. Non è finita qui, perché il protagonista, ormai con gli sbirri alle porte che lo attendono allo stadio, riesce a dare luogo a un altro omicidio, quello dell’arbitro Wenders, colpevole di avere commesso un grave errore durante la partita. Come Katsanis compiva i suoi delitti? Attraverso una lametta nascosta sotto il cerotto del pollice, è così svelato anche questo mistero. Morirà suicida in un carcere di sicurezza ingoiando una saponetta. Nonostante questo il narratore della storia non può che giungere a una conclusione:  

“Fu una stagione da incubo, senza dubbio, eppure nel parlarne con lei mi sono tornati in mente bei ricordi. Penso soprattutto all’Old Swampy, e a come si tingeva di arancione quando tutti quei tifosi sollevano i cartelli: STRADA CHIUSA PER ORDINE DI BLOCCO BILLY. Sì, il tipo che ebbe quella pensata deve aver fatto un sacco di soldi. Ma le persone che comprarono i cartelli furono ampiamente ripagate. Quando si alzavano e li reggevano sopra la testa, si sentivano parte di qualcosa che era più grande di loro. […] BLOC-CO, BLOC-CO, BLOC-CO. Mi vengono ancora i brividi quando ci ripenso. Mi risuona ancora nelle orecchie. Folle o no, menagramo o no, quel ragazzo era un grande.”