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“Il migliore” di Bernard Malamud. Un romanzo malinconico per un film da sogno

Vi sono film superati dai libri e libri superati dai film, quest’ultimo è il caso di Il migliore di Bernard Malamud (Brooklyn, 26 aprile 1914 – New York, 18 marzo 1986), primo romanzo dello scrittore, datato 1852, da cui nel 1984 è stato tratto il famoso omonimo lungometraggio diretto da Barry Levinson, con la preziosa interpretazione di Robert Redford. A livello popolare la pellicola ha di certo superato il volume cartaceo, un romanzo che comunque non ha niente da invidiare al lavoro di Levinson, ma, anzi, pone ancora maggiore attenzione alla psicologia dei personaggi e risulta ben più profondo e speculativo, questo anche grazie a un finale diverso dalla pellicola, che rinuncia al lieto fine hollywoodiano, a favore invece di un altro ben più triste e melanconico.

 

Lo spogliatoio era silenzioso come una tomba. Il lanciatore che prima era nella doccia – sul pavimento c’erano ancora le impronte bagnate dei suoi piedi – si era rivestito in fretta ed era sparito. Mettendo via le proprie cose, Roy si accorse che continuava a guardarsi attorno come se volesse assicurarsi di essere veramente lì. Sì, era proprio lì, eppure, con tutto il fantasticare che aveva fatto su come sarebbe stato quando finalmente avrebbe raggiunto le leghe maggiori, non aveva immaginato che si sarebbe sentito tanto giù.

 

La traduzione di Mario Biondi è godibile e fortemente emotiva e ci trascina all’interno delle vicende del protagonista. Roy Hobbs è un giocatore di baseball, che riesce a raggiungere il campionato maggiore soltanto a trentaquattro anni. La sua storia è particolare, ma nessuno la sa e la saprà mai – se non proprio nelle ultimissime righe del finale -, tranne il lettore, che ne viene informato fin dal primo capitolo: un giorno, quando aveva soli diciannove anni e sarebbe dovuto approdare in una importante squadra, durante un viaggio aveva incontrato una misteriosa donna, una serial killer, assassina di sportivi famosi. Anche lui rimane sua vittima, per fortuna senza rimanere ucciso dal suo calibro 22. Quell’incidente però lo porta ad allontanarsi per un periodo dallo sport e a tornarci soltanto in un secondo momento, quando approda ai New York Knights, squadra in difficoltà, che attraverso la sua bravura – Roy è un grande battitore – tornerà ai vertici, ma, proprio prima dell’ultima partita, quella che avrebbe dovuto regalare lo scudetto alla squadra, il giocatore subisce un’intolleranza alimentare e torna in campo molto debole – in più ha anche subito un ricatto dal Giudice, presidente dei Knights, che, per una questione economica, non vuole che il team vada a vincere lo scudetto, perché poi dovrebbe partecipare alla World Series. Infine i Knights non ce la faranno, Roy colpendo la pallina romperà la sua mazza Wonderboy, che si era costruito quando era solo un bambino, a cui nella stessa notte farà un vero e proprio funerale. Del film invece si ricorderà sicuramente l’ultima scena, il mitico fuori campo, le luci dello stadio che vanno in frantumi, un sogno avverato, con i Knights campioni della stagione: due finali divergenti per due diverse opere, entrambe, a loro modo, capolavori.

 

Con il cuore pesante Roy si trascinò al piatto. Sentiva delle fitte lancinanti ai muscoli del dorso, che prima non l’avevano mai infastidito, e uno spasmo al collo. Non poteva raddrizzarsi agevolmente e il peso di Wonderboy lo accasciava ancora di più. Ma Vogelman, nonostante il modo in cui l’aveva eliminato, era carico di preoccupazioni per ciò che lui avrebbe potuto fare ancora.

 

Come accade per gli eroi di Malamud, anche Roy Hobbs è un uomo solo, senza veri amici, rinchiuso in sé stesso e con ossessioni che lo distraggono dalla sua missione. Egli sbaglia le sue scelte, s’innamora di Memo, la donna che lo condurrà alla sua fine, invece di considerare con più attenzione Iris, quella che invece potrebbe rappresentare la sua salvezza. Il protagonista è isolato, circondato dal viscido allibratore Gus, dal Giudice calcolatore, da Pop Fisher, l’allenatore che nella sua bontà riversa sugli altri le sue frustrazioni, dal giornalista Mercy, che infine riuscirà a farlo scomunicare dal baseball organizzato scoprendo la sua vera storia. Hobbs è colui che ha un talento connaturato (lo dice lo stesso titolo originale The Natural, mentre quello italiano ne banalizza il contenuto), ma che questo talento non riesce a gestire appieno, in balia di troppe distrazioni che lo distolgono dal suo sogno, che alla fine viene infranto. Sarà un caso che Levinson descrive la scena finale del film in modo così onirico? No, quella scena finale non è reale, è un sogno, la proiezione del protagonista che può vincere soltanto nella sua mente. Leggere il libro, in questo senso, ci apre quindi a nuove prospettive nella interpretazione della pellicola.

 

Stefano Duranti Poccetti

Provenienza dell’articolo: Rivista “Il Borghese”