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“Il mio nome è Jackie Robinson” di Scott Simon. Combattere la segregazione attraverso il baseball

Il giocatore di baseball che più di tutti ha inciso nella storia di questo sport per quanto concerne l’abbattimento della barriera del colore, è stato certamente Jackie Robinson (Cairo, 31 gennaio 1919 – Stamford, 24 ottobre 1972). In Italia è stato pubblicato un bellissimo volume che ci narra la sua vicenda, che è “Il mio nome è Jackie Robinson” (casa editrice 66thand2and di Roma), scritto dal giornalista americano Scott Simon – tradotto nella nostra lingua da Marco Bertoli -, che racconta questa storia con l’abilità di un romanziere.

Il secondo conflitto mondiale ha appena avuto termine, gli Stati Uniti sentono sempre più il bisogno di trasformare quel concetto di libertà tanto esportato all’estero in concreto. Se l’America si presentava come un Paese libero infatti vi era – come tutt’oggi – il problema legato alla segregazione razziale. Si comincia allora a sentire la necessità di rompere le barriere, che nel baseball significava cercare di mettere fine alla divisione tra la Negro Leagues – in cui giocavano soltanto neri – e la Major Leagues. Tutto iniziò quando il dirigente sportivo dei Brooklyn Dodgers Branch Rickey decise che per la prima volta un giocatore nero dovesse debuttare in Major. Tra i tanti nomi ai quali aveva pensato, Jackie Robinson, con una carriera militare alle spalle, gli parve il più adatto, sia a livello caratteriale (dimostrò di saper rispondere a tutte le provocazioni senza irruenza, ma con grande autocontrollo) che tecnico. Robinson accettò e così, dopo una prima stagione a Montreal, una società affiliata ai Dodgers partecipante alla lega minore, nel 1947 debuttò all’Ebbets Field, per la sua prima stagione in Major e già al primo tentativo riuscì a vincere il campionato. Per trionfare nelle World Series invece i Brooklyn Dodgers dovranno attendere fino al 1955.

 

Nessuno sentiva il bisogno di un nuovo resoconto dell’arrivo di Jackie Robinson nelle Major Leagues. È però mio privilegio cercare di darne uno. La storia di Robinson è diventata una sorta di parabola americana. Nella nostra mente posa su uno scaffale accanto a quella di Mr Lincoln, lo spaccalegna, arrivato dalla praterie per abbattere la schiavitù; dell’Aquila solitaria, Lindbergh, che volteggiò sull’Atlantico ad annunciare l’arrivo dell’America; e a quella di Franklin D. Roosvelt, che si sollevò dalla prostrazione della poliomielite per riforgiare nell’acciaio la spina dorsale di una nazione. È la storia di un americano solitario, di forti convinzioni, che si eleva una spanna sopra gli altri e procede da solo, con coraggio, per colpire l’odio, l’ignoranza e la paura.

 

La vittoria delle partite non fu la sfida più complicata per Robinson, che fu invece quella contro il razzismo, combattuto senza mai replicare a un insulto, a un tacchetto piantato sullo stinco o a una palla lanciata ad altezza testa. Alla fine chiunque, senza distinzione di etnia, ha dovuto rendersi conto del valore sportivo – grande battitore e corridore – e umano di questo giocatore, che morì diabetico a soli 53 anni a Stamford, dopo avere dedicato gli anni conseguenti al suo ritiro dal baseball giocato alla lotta per i diritti civili. Oggi il suo numero, il 42, è stato ritirato dalla Major, per rendere merito a un atleta – in campo principalmente prima e seconda base –, che contribuì a rendere il baseball, lo sport in generale e un Paese intero, più liberi, scontrandosi continuamente con l’ignoranza e la paura della diversità. Pochi sono coloro che appoggiarono Robinson fin dall’inzio, uno di questi, a parte Rickey, fu il compagno di squadra Pee Wee Reese. Indicativa in questo senso la statua che fu a loro dedicata, oggi ancora visibile a Brooklyn.

 

Stefano Duranti Poccetti