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RITORNO AL GIOCO – (Prima… Base)

Primo appuntamento con il nuovo racconto di Stefano Duranti Poccetti, il racconto che pubblicheremo a dispense ogni mercoledì sul nostro blog. Un appuntamento a cui non potete mancare che fa da introduzione alla nuova stagione. Buona lettura!

RITORNO AL GIOCO

di Stefano Duranti Poccetti

 

Mi sarebbe piaciuto avere la possibilità di fissare un lanciatore. Fissarlo dritto negli occhi e poi ammiccargli proprio quando si prepara a lanciare. Costringerlo a chiedersi se so qualcosa che lui non sa, se non gli conviene cambiare lancio a metà strada. Questo mi piacerebbe fare, Ray Kinsella: avere la possibilità di strizzare gli occhi quando il cielo è così azzurro che quasi non si riesce a guardarlo e sentire quel formicolio che ti risale il braccio quando sei concentrato al cento per cento.

Shoeless Joe, William Patrick Kinsella

 

 

Guardava e riguardava quella mazza dimenticata nell’angolo della stanza. Era la sua mazza, lasciata lì dopo un amaro “addio” al baseball. Detto così sembrerebbe trattarsi di un professionista del gioco, in realtà l’aveva praticato sempre e soltanto a livello amatoriale, ma questo non significa che in lui non fosse nato un serio amore per questo sport, che non rappresentava soltanto un divertimento, ma un modo nuovo di approcciarsi alla vita. La sua mente filosofica non poteva non ravvisare nel baseball una emblematica metafora dell’esistenza, con quel giro delle basi che pareva tanto il percorso dell’arco vitale, fatto di gioie, ma anche di dolori. Per lui un dolore c’era stato, sì, c’era stato quella volta che nell’inciampare correndo a casa aveva commesso un movimento così anomalo col ginocchio da incorrere in un brutto infortunio, che l’aveva tenuto lontano dai campi per un anno e mezzo; ancora del resto se ne teneva lontano, stavolta per scelta.

Eccolo lì, con lo sguardo perso verso la sua mazza, senza riuscire a schiodarle gli occhi di dosso. Il ginocchio adesso stava molto meglio e avrebbe potuto ritornare a giocare, ma perché non lo faceva? Era difficile darsi una risposta plausibile, l’unica cosa che sapeva è che si sentiva bloccato. Forse non si sentiva più all’altezza, forse aveva paura di fallire, forse il timore di non poter tornare ai livelli trascorsi lo faceva cadere in abissi inspiegabili. Era come se dentro di sé qualcosa fosse cambiato e l’amore per il baseball l’avesse completamente abbandonato, tanto è vero che non guardava neanche più le partite in televisione e da tempo aveva smesso di seguire da spettatore le gare dei suoi compagni, che spesso lo chiamavano per sincerarsi delle sue condizioni, sperando che tornasse presto, perché la mancanza di un esterno centro della sua statura si stava facendo sentire. Proprio così, il suo ruolo era quello di esterno. Alla maniera di tutti i principianti aveva iniziato a destra, per poi ricoprire in particolar modo la parte centrale, anche se a volte veniva posto sulla sinistra. Tutti gli riconoscevano le sue doti di presa e in particolare il preciso e teso tiro in grado di eliminare il corridore avversario a casa.

Ora che si trovava lontano dai campi, delle volte afferrava una palla da tennis e la scaraventava con forza contro il muro di casa per poi riceverla col guantone, ma erano solo timidi sussulti nostalgici della sola durata di qualche tiro. Quella insita in lui era una sofferenza della quale non si liberava. Si sentiva ingabbiato all’interno di queste sensazioni che lo opprimevano, che lo tenevano fermo a sostare davanti alla mazza, senza osare prenderla in mano. Ugualmente, del resto, era da tempo che non prendeva tra le mani una palla da baseball, assaporando le sensazioni uniche che quell’ammasso di sughero e di cuciture, di bianco e rosso, riesce a donare, rivelandosi invero un efficiente antistress. Questo non accadeva: le palle rimanevano fisse sugli scaffali, come fossero oggetti d’antiquariato, reperti rari e intoccabili. La divisa ocra della sua squadra rimaneva appesa in cruccia ormai dall’ultima volta che l’aveva utilizzata: il fatidico giorno dell’infortunio dal quale era ritornato con un’idea diversa del baseball e forse anche della vita. Sì, lungo il suo cammino non aveva mai vissuto grandi sofferenze e quell’allontanamento l’aveva vissuto in modo scioccante, come se fosse stato abbandonato dalla donna della vita. Di storie ne aveva avute, ma senza trovare in definitiva quell’amore ardente che aveva invece riversato nello sport, prendendo con grande serietà un impegno che in realtà era dilettantistico e che era vissuto dalla maggioranza dei giocatori in modo superficiale, tra mancate presenze agli allenamenti e bottiglie di birra sparse qua e là per il diamante. Quel giovane invece era il primo a presentarsi al campo e l’ultimo ad uscirne. Se i compagni si allenavano su cinquanta battute lui ne faceva cento, se gli altri provavano cento prese lui ne provava duecento. Giocava nel baseball amatoriale solo perché si era avvicinato già piuttosto adulto a questo sport, ma se avesse avuta la possibilità d’iniziare da piccolo sarebbe probabilmente arrivato in alto, grazie alla somma del suo talento tecnico, della sua attitudine fisica e della dedizione costante. Insomma, il tempo passava e il ragazzo continuava a perdersi in quei reperti, che ormai considerava senza vita, vissuti in un passato che non si sarebbe ripresentato.

Nutriva in ogni caso la speranza che quella situazione avrebbe avuto una fine e che sarebbe arrivato il momento giusto perché il suo stato d’animo si sbloccasse. Dentro di sé era infatti a conoscenza che un amore vasto quanto quello che provava per il baseball non poteva essere interrotto. La sua era in fin dei conti una “pausa di riflessione” maturata in seguito a eventi che l’avevano improvvisamente frastornato. Il giorno tanto atteso arrivò quando fu chiamato dall’allenatore della sua squadra, che di tanto in tanto voleva informarsi sulle sue condizioni. Questa volta però le chiacchiere non si fermarono ad argomenti generici, visto che veniva contattato per una proposta concreta. Da lì a dieci giorni la squadra avrebbe dovuto partecipare a un torneo, ma per una serie di ragioni venivano a mancare molti dei giocatori, cosicché al coach era venuta l’idea di chiamarlo, consapevole che i tempi di recupero dall’infortunio erano passati. Così, dopo pochi preamboli, arrivò la fatidica domanda: “Vuoi venire?”, che per qualche secondo cadde nel vuoto senza avere risposta. Passato l’attimo di sospensione, la replica del giovane fu: “Grazie per la proposta, ci penserò e glielo dirò prima possibile”. La conversazione finì da lì a poco e nella mente del ragazzo cominciarono a prendere forma molti pensieri e ricordi che lo ricondussero al passato. In quel momento c’erano due persone: una che insisteva per partecipare, l’altra che lo tratteneva e che lo esortava a restare in quella immobilità che stava diventando deprimente.

 

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