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RITORNO AL GIOCO – (Seconda… Base)

Eccoci qua al secondo appuntamento con il nuovo racconto di Stefano Duranti Poccetti, il racconto che pubblichiamo a dispense ogni mercoledì sul nostro blog. Un appuntamento a cui non potete mancare che fa da introduzione alla nuova stagione. Buona lettura!

Per chi si è perso la .. Prima Base, può leggerla qui

RITORNO AL GIOCO

di Stefano Duranti Poccetti

 

Quella notte non chiuse quasi occhio, proprio perché percepiva che qualcosa si stava smuovendo in lui. Avvertiva finalmente quel senso di cambiamento che forse gli avrebbe permesso di tornare su un campo da baseball. Certo, era molto tempo che non giocava e sapeva benissimo che dieci giorni erano veramente pochi per tornare in forma, anche considerando il fatto che non solo aveva rinunciato al baseball, ma a qualunque attività sportiva. L’allenatore gli aveva anche detto che, se interessato, lo avrebbe atteso volentieri al campo per allenarsi, dove l’avrebbero accolto tutti con spirito di festa. C’erano tante idee nella sua testa, tante palpitazioni nel suo cuore: era come se sapesse che voleva tornare a giocare, ma a suo modo però. Che cosa significava “a suo modo”? Questo non sapeva dirlo, ma era sicuro che l’illuminazione sarebbe arrivata velocemente e in modo inaspettato. Per adesso si limitò a prendere il telefono e contattare l’allenatore per dirgli che, sì, avrebbe partecipato, ma che non sentendosi in forma si sarebbe allenato da solo, per compiere esercizi mirati alla sua attuale condizione. L’altro accettò e si diedero appuntamento per nove giorni più tardi, quando sarebbero partiti insieme alla squadra per intraprendere il torneo, che veniva organizzato in una città sita a circa quaranta chilometri di distanza. Altre ventiquattro ore passarono senza che l’illuminazione fosse giunta. Arrivò l’indomani e adesso mancavano otto giorni, con una settimana precisa per allenarsi. La lampadina si accese all’improvviso, senza una ragione precisa. Appena sveglio aveva pensato a una casa diroccata in campagna, che si trovava non distante dalla sua abitazione. Si trattava di una struttura abbandonata da decenni, con circa due ettari di terreno attorno e con un grande bosco interno. L’istinto gli suggerì di dirigersi là, come non faceva dai tempi in cui da piccolo si divertiva ad andare con gli amici, per stare sul verde e arrampicarsi sugli alberi. Era come se per la sua nuova vita dedicata al baseball avesse bisogno di ricominciare dalla natura, desiderando un ritiro che lo portasse a vivere lontano da tutto e da tutti: dalla vita sociale e dagli obblighi che s’instaurano tra persone. Si diresse lì senza mazza e
guantone, vestito in maglietta, calzoncini e scarpe da ginnastica. Non sapeva in che stato avrebbe trovato quella casa dopo tanti anni e si entusiasmò nel vederla ancora diroccata, nello stesso stato in cui la ricordava, ritrovando incise sugli alberi anche delle scritte che con gli amici avevano incise da bambini. Attraversò un breve viale di cipressi e si ritrovò all’interno del bosco, tra i pini e gli alberi da frutto, già secchi. Lì si fermò in meditazione e cominciò ad assaporare l’aria fresca e pulita dell’ambiente campestre. Il sole batteva forte, ma l’ombra di quella foresta lo riparava dal caldo estivo, ponendolo nel clima e nello stato d’animo giusti per affrontare un passo importante. Si era seduto su un tronco e poi si alzò improvvisamente cominciando a correre dentro quella selva. Ancora era combattuto: c’era chi lo spingeva a dare il massimo e chi lo bloccava, suggerendogli che quello che stava facendo era inutile. Certo, ci sarebbe voluto del tempo per sottrarsi dalla pigrizia in cui era caduto, ma ora stava correndo, questo era già un importante passo in avanti e il fatto che il ginocchio non gli desse fastidio provocò in lui una subitanea felicità che lo spronò a continuare in quella corsa selvaggia, che lo metteva in sintonia con la natura, con la sua mente, col suo corpo. Finito quello sforzo si sedette di nuovo sullo stesso tronco e affaticato cominciò ad avere ricordi che somigliavano a delle visioni. Rammentava così quella determinata partita vinta o persa; quella precisa giocata in cui era riuscito a compiere qualcosa di eccezionale; quell’errore del quale si era rammaricato. Era il passato che tornava: era il baseball che si riavvicinava a lui. Doveva decidere se tenerlo distante o se accettarlo. Aveva fatto un piccolo passo, ma ancora non si sentiva pienamente pronto per quello che stava compiendo. Eppure l’aveva promesso: lui a quel torneo ci sarebbe stato. Affrontare di nuovo il campo, la squadra, l’ambiente, il gioco… non sarebbe stato semplice, ma, sì, lui quella battaglia doveva vincerla e aveva deciso di farlo, seppure a suo modo. Quel modo, come detto, era ricominciare dal luogo bucolico e dalla solitudine, recuperare non solo la forma fisica, non solo la tecnica… la cosa fondamentale era ricostruire quello che per lui il baseball significava. Non era solo un gioco, ma una metafora della vita, un metodo per estraniarsi da essa e abbandonare la realtà, catapultandosi in un sogno, volando per quelle basi trasfigurato in angelo. A sera, rientrando a casa, percepì un vigore che non avvertiva da tempo: una voglia di fare, un’energia radiosa che certo non poteva che promettere buone cose. Era come se fosse riuscito a sbloccarsi e se quella parte di sé che gli chiedeva di agire e di tornare in gioco cominciasse a prendere il sopravvento sui tanti ombrosi spettri. Sapeva che il cammino non sarebbe stato facile, ma sapeva anche di essere sulla buona strada. Chiuse gli occhi e ripensò al tronco, alla natura, a quell’aria fresca che lo inebriava, addormentandosi, come fosse un bambino. All’indomani sentiva le gambe un po’ tirare, perché, benché si fosse trattato di un allenamento piuttosto morbido, era comunque abbastanza per una persona che non si riesercitava da tempo. Questo comunque non gli precludeva l’attività fisica, così prese la sua bicicletta e si diresse ancora a quella casa, che ora sentiva tanto amica. Anche in questo caso non portò con sé né la mazza né il guantone né le palle. Non lo fece a caso, ma con un preciso intento. Giunse ancora in quel bosco e diede luogo a una breve corsa per scaldarsi, per poi fare qualche scatto tra gli alberi. Le sue gambe rispondevano sempre meglio e le percepiva sempre più elastiche e toniche. Non aveva portato con sé l’attrezzatura, ma una roncola… con quella tagliò con precisione una canna di bambù, più o meno della misura di una mazza da gioco. Poi si fermò all’entrata del bosco, dove c’era un grande spiazzo tondeggiante. Si pose nella posizione di battuta e cominciò a proporre quel movimento che non faceva da più di un anno. Quella canna frusciava all’urto del vento, mentre il sole gli batteva sulla fronte e
sul cappello. Guardava davanti a sé e vedeva quei lanciatori che aveva sfidato insieme al caldo cuocente. Era un giocatore con un’ottima percentuale di valide. La sua battuta era di contatto, non era un fuoricampista e per questo l’allenatore lo schierava di norma tra i primi della lista. Di fuoricampo ne aveva fatto soltanto uno in vita sua e se lo ricordava bene. Aveva impattato la palla in modo perfetto, centrale, facendola volare ben aldilà della rete. Ricordava il giro di onore con compagni e avversari che gli davano la mano. Ricordava la bella sensazione, ma anche quella spiacevole per avere ammazzato il gioco, che così diventava immobile fino al nuovo lancio. Si era illuso che da quel momento in poi di fuoricampo ne sarebbero arrivati altri e invece non fu così, ma in fin dei conti questo non era stato mai un problema: a lui interessava arrivare in base, divertirsi a correre tra i cuscinetti, scivolare a faccia in giù e a faccia in su. Era meglio così, sì: lui non amava “ammazzare il gioco”, ma giocare e permettere anche ai compagni di giocare. Stette lì, davanti al sole e ai lanciatori immaginari per due ore a provare il movimento della battuta, con quella canna, alter ego della mazza. Era meno pesante e frusciava all’urto del vento. Era un rumore che gli piaceva, perché lo metteva sempre più in contatto con la natura. Era stanco, ma continuava a provare e provare senza cedere, compiaciuto e felice di rendersi conto che poteva considerare il suo ginocchio completamente guarito; compiaciuto e felice che quella oscura voce che lo invitava a ritirarsi dal mondo del baseball stava man mano scomparendo, sormontata dall’altra luccicante e positiva, che invece lo riconduceva verso l’amore per il gioco. Anche quella giornata era finita e adesso finalmente non percepiva più quell’allenamento come un inizio. Si sentiva ormai concentrato, dentro il gioco, e cominciava ad accorgersi che non solo gli avrebbe fatto piacere partecipare al torneo, ma, ne era convinto, poteva farlo da protagonista, giocando bene. Il verde e la solitudine lo stavano aiutando. Quella sera si confrontò anche con l’allenatore, che fu molto contento di sentirlo motivato. In pochi giorni insomma stava ricostruendo la sua identità sportiva e questo stava avvenendo in modo molto più rapido del previsto. Così si addormentò con il sorriso sulle labbra, con tante idee per il giorno seguente.

 

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