RITORNO AL GIOCO – (Terza… Base)
Siamo al terzo appuntamento con il nuovo racconto di Stefano Duranti Poccetti, il racconto che pubblichiamo a dispense ogni mercoledì sul nostro blog. Un appuntamento a cui non potete mancare che fa da introduzione alla nuova stagione. In questa terza parte il ragazzo, incontrerà qualcuno al campetto dove si allena, Chi sarà?
Buona lettura!
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RITORNO AL GIOCO
di Stefano Duranti Poccetti
Anche la mattina successiva si portò verso il boschetto. Stavolta aveva deciso d’intraprendere un allenamento sulla corsa lungo le basi. Giunse allo spiazzo situato all’entrata del bosco e ricreò una sorta di diamante dove i cuscinetti non erano altro che piccoli ammassi di fieno. Si pose sul piatto di battuta con la sua canna, simulò una valida e si portò velocemente in prima base, cercando di andare il più veloce possibile. Alla seconda arrivò in scivolata, così come fece alla terza. A questo punto non si doveva fare altro che andare a casa e realizzare il punto per la sua squadra immaginaria, ma allora si bloccò improvvisamente. Cosa stava accadendo? I fantasmi stavano forse tornando? Andare verso casa ricopriva per lui un significato speciale: finalmente sarebbe rientrato completamente dentro il gioco, riavvicinandosi indissolubilmente al baseball. Era lì a osservare da lontano il piatto di casabase, come se aspettasse il momento giusto per correre. Poteva trattarsi di una valida dall’altra parte del campo o di una volata di sacrificio: la cosa importante era riuscire ad andare a casa, questo per fare un punto importante per la squadra, ma anche per se stesso, perché quel punto avrebbe sancito il suo rientro definitivo. Era da solo in quel campo dimenticato, oramai privo di erba. Cosa stava aspettando? Si trovava fermo in terza, a volte faceva qualche passo in avanti per prendere il giusto tempo, ma non partiva, non ci riusciva! Pensava a quando era solito farlo ai tempi in cui giocava con continuità, quando erano tanti i punti battuti e quelli realizzati. Quegli stessi tempi parevano ora tanto lontani e vicini e, se a tratti le forze lo abbandonavano, poi ricomparivano e sentiva che poteva farcela! Poteva arrivare a casa e fare punto! Poteva arrivare al traguardo, all’apice di un percorso che l’avrebbe premiato con il rientro nel gioco. Finalmente lo fece: partì a tutta velocità e scivolò sul piatto di casabase. Per lui fu una grande liberazione. Adesso lo sapeva: l’amore che sembrava averlo abbandonato per sempre era ritornato più forte che mai. Ora era pronto, completamente pronto. Il giorno ancora seguente decise di allenare il suo braccio da esterno, in passato capace di compiere tiri lontani, veloci e precisi. Raggruppò una cinquantina di pigne trovate per terra, scelse un bersaglio preciso dove lanciarle e cominciò a scaraventarle là come fossero palle. All’inizio i lanci non furono precisi, ma in un secondo tempo il giovane giocatore ricominciò a riconoscersi quello che era un tempo, con lanci perfetti quasi al millimetro. Grazie a queste giornate si era reso conto di una cosa fondamentale: nella natura esiste tutto, veramente tutto e in quei luoghi era possibile trovare sia il sollievo fisico che mentale. Là, tra i colori dei fiori campestri, tra le farfalle che s’inseguono e i canti degli uccelli, era davvero possibile cogliere quella pace necessaria al sé. Quei giorni stavano rappresentando per lui, invero, un ritiro dalla quotidianità dell’esistenza, ritiro indispensabile al miglioramento spirituale e fisico, che adesso avvertiva più forte e stimolato che mai. Quei momenti erano intensi e passavano allo stesso tempo in modo rapido e lento. Ciò che conta è che fossero vissuti dal giovane in modo febbrile, trovando una concentrazione che non aveva mai trovato altrove. Il tempo però cominciava a stringere e mancavano soltanto quattro giorni al torneo. Stava maturando in sé l’idea che per gli ultimi giorni sarebbero diventati necessari la mazza, il guantone e anche i compagni di allenamento. Prese così una decisione: il giorno dopo sarebbe stato l’ultimo in quella casa abbandonata, per poi passare le ore rimanenti al campo insieme alla squadra. Decise anche che quell’ultimo giorno sarebbe stato di riposo e che sarebbe andato al luogo soltanto per meditare e rasserenarsi per trovare il giusto equilibrio psicologico per affrontare la competizione. Così fu e appena arrivato con la sua bicicletta si sedette sul solito tronco che aveva dato inizio alla sua avventura. Stava lì a pensare al baseball e alla vita, quando fu risvegliato da una voce. “Ehi, ragazzo, se vogliamo fare una bella figura al torneo dobbiamo sbrigarci, non c’è tempo da perdere!” L’altro girò lo sguardo, stupito e spaventato. Davanti a lui vide apparire un giocatore di baseball dalla divisa anni Trenta. Era rigata con una “N” e un “Y” all’altezza del cuore: una vecchia camicia dei New York Yankees. “Che stai aspettando lì impalato? Ci sono molte cose da migliorare!” L’atleta, in forma e determinato, continuava a parlare su quel piano, mentre il giovane non capiva proprio cosa stava accadendo. “Chi sei?”, gli chiese. “Questi non sono affari tuoi. La cosa importante è che sono qui da giorni e ho assistito a tutti i tuoi allenamenti. Certe cose non vanno, no, proprio non vanno. Se vuoi essere un professionista dobbiamo migliorarle.”, “Io non sono un professionista, gioco nel baseball amatoriale.”, “Si può giocare nel baseball amatoriale, ma avere un cuore e un cervello da professionista, ti interessa?”, “Sì.”, rispose. A quel punto il giocatore lo invitò a seguirlo e lo condusse presso un campo che, benché si trovasse all’interno della proprietà, il cadetto non aveva mai visto. Era molto grande, accuratamente spianato e tagliato, perfetto per giocare a baseball. Quello che poteva essere un fantasma o una creatura immaginaria lo invitò a raccogliere la mazza e a mettersi sul piatto di casabase. In effetti c’era di tutto, dalla mazza alle palle, al guantone, a casabase e le tre basi, che non erano state costruite in modo sciatto, ma come si potrebbe fare in un impianto che si rispetti. Quel giocatore senza nome cominciò a lanciare le palle al ragazzo, che le batté discretamente. “Sei troppo fermo!”, gli diceva, lui che proveniva da un baseball anni Trenta e che non era abituato a vedere dei movimenti così studiati a tavolino, invitandolo a trovare una propria posizione di battuta, una gestualità personale che gli permettesse di sentirsi libero. “Guarda me”, gli disse, invitandolo a lanciargli delle palle, e quello con indifferenza e leggerezza le scaraventava in zone dove diventavano invisibili. In effetti quei consigli lo aiutarono a slegarsi e adesso batteva molto meglio, tantoché alcune palle volarono fuoricampo, mentre una fu impattata forte, tesa e centrale, dirigendosi pericolosamente verso il lanciatore, il quale la fermò col guantone con calma olimpica. Era chiaro si trattasse di un essere speciale, che però non voleva svelarsi. Quel volto non gli era nuovo, eppure non gli veniva proprio in mente il nome di quel giocatore venuto dal passato per aiutarlo chissà per quale ragione. Finito l’allenamento di battuta, quello gli disse di dovere andarsene e che l’avrebbe atteso nuovamente l’indomani. “Non dire che mi hai visto, non dirlo mai a nessuno, altrimenti non potrò tornare mai più”, aggiunse, prima si sparire. Era di poche parole, ma molti fatti e il giovane lo osservava mentre si eclissava lentamente dentro al bosco. Va da sé che l’idea dell’aggregamento coi compagni fosse tramontata e che a questo punto si trovasse profondamente incuriosito da quell’incontro, tra l’altro molto fruttuoso, visto che attraverso quei pochi consigli si riteneva già migliorato, meno rigido e più libero nei movimenti. Prima di dormire quella sera fece alcune brevi ricerche, per quanto la stanchezza gli concedesse, non riuscì però a capire con chi avesse a che fare e chi fosse quel giocatore venuto da lontano per aiutarlo a realizzare il sogno d’amore per lo sport.
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