“Underworld” di Don DeLillo. La magica palla che delinea il volto dell’America
Tra i libri che parlano di baseball, vi è anche “Underworld” di Don DeLillo (New York, 20 novembre 1936), pubblicato nel 1997 – in Italia nel 1999 per Einaudi con la bella traduzione di Delfina Vezzoli – supportata dalla consulenza tecnica di Enzo di Gesù – e con la emblematica copertina raffigurante “New York, 1972” del fotografo André Kertész. Il romanzo, un colosso di quasi novecento pagine, non è incentrato in realtà sullo sport di Babe Ruth e Joe DiMaggio, che ne partecipa però come ne fosse un riflesso, grazie a una palla da baseball che viene passata di mano in mano dai protagonisti. Non è una palla qualunque però, è quella palla, in verità andata persa, che Bobby Thomson spedì in fuoricampo il 3 ottobre 1951 al Polo Grounds di New York, nella partita tra i New York Giants (oggi San Francisco Giants) e i Brooklyn Dodgers (gli odierni Los Angeles Dodgers), con i primi trionfanti nel nono inning per 5 a 4, grazie alla memorabile battuta che permise loro di vincere il campionato. Se il volume, nella sua completezza, non volge al baseball, è completamente sul baseball il prologo, “Il trionfo della morte”, il quale prende il nome dall’omonimo dipinto di Bruegel il Vecchio, citato proprio in queste prime sessanta pagine, visto che appare sulla pagina di una rivista, che danno avvio all’intera vicenda, con un ragazzino di fantasia, un ladruncolo afroamericano di nome Cotter Martin, che marina la scuola, riuscendo a intrufolarsi alla partita saltando il tornello. Sugli spalti incontra Bill Waterson, un imprenditore. I due saranno in tono amichevole per tutta la gara, fin quando non arriva il famoso homerun conclusivo di Thomson, quando i due si contenderanno la palla, che Cotter si prende con la forza e che a sua volta Bill tenterà di sottrargli in tutte le maniere, senza riuscirci, seguendo il ragazzo addirittura fino a casa, nel caldo quartiere di Harlem. Attorno a loro, immersi tra i colori e l’atmosfera quasi onirica del Polo Grounds, in una giornata influenzata dalla pioggia, orbitano anche altri personaggi realmente esistiti, come il commentatore della WMCA Russ Hodges – famosa la sua radiocronaca, quando nel finale pare sotto shock per il sorprendente epigolo -, il cantante e attore Frank Sinatra, il conduttore Jackie Gleason, Toots Shor (proprietario all’epoca di un conosciuto locale di Manhattan), rappresentati come spettatori d’eccellenza del match, dei quali si mettono in evidenza le peculiarità, non prive di critiche, facenti parte del mondo delle star. La partita s’inserisce nel clima della Guerra Fredda tra Russia e Stati Uniti, che in quel periodo si faceva sentire in modo preponderante e queste preoccupazioni sono espresse in particolar modo dalla figura di J. Edgar Hoover, al tempo direttore dell’FBI, poco interessato alla partita, quanto agli eventi sociali e politici. Il preambolo parla poi di un America baseball-centrica, sport in grado di mettere d’accordo tutte le fasce culturali e sociali.
C’è un uomo nella tribuna superiore che sta sfogliando una copia dell’ultimo numero di Life. C’è un uomo nella Dodicesima strada a Brooklyn che ha collegato un registratore alla radio in modo da registrare la voce di Russ Hodges che commenta la partita. L’uomo non sa perché lo sta facendo. È solo un impulso, un capriccio, è come sentire la partita due volte, è come essere giovani ed essere vecchi allo stesso tempo, e questa sarà l’unica registrazione conosciuta del famoso commento di Russ del finale della partita. La partita e le sue estensioni. La donna che cuoce il cavolo. L’uomo che vorrebbe farla finita col bere. Sono l’anima più remota della partita. Collegata allo stadio dalla voce pulsante della radio, unita al tam tam orale che trasmette il punteggio per strada e ai tifosi che telefonano al numero speciale, e la folla dello stadio che diventa un’immagine televisiva, persone grosse come chicchi di riso, e la partita come voce e congettura e storia interna. C’è un sedicenne nel Bronx che si porta la radio in cima al tetto del caseggiato per poterla ascoltare da solo, un tifoso dei Dodgers, acquattato nel crepuscolo, e sente il resoconto della smorzata mal giocata e della volata che segna il pareggio e guarda al di là dei tetti le spiagge di catrame con le corde per stendere il bucato, le piccionaie e i preservativi spiaccicati e si sente accapponare la pelle. Il gioco non cambia il modo in cui dormi o ti lavi la faccia o mangi. Ti cambia soltanto la vita.
“Il trionfo della morte” si chiude emblematicamente con Russ, che dopo la partita e dopo avere incontrato un Branca – il lanciatore che appena entrato ha concesso il fuoricampo a Thomson – muto e sconsolato, si ferma a guardare un ubriaco, vestito con un impermeabile, mentre corre tra le basi del Polo Grounds.
Nel resto del romanzo, il baseball, almeno a livello protagonistico, si eclissa, per fare invece da sfondo. Delle volte però riemerge e lo fa con incisività, grazie alle pennellate del Maestro DeLillo, il quale, complice l’ottimo lavoro della traduttrice, ci lascia assaporare il suo impeccabile stile descrittivo e visionario, quasi più consono a un pittore che a uno scrittore, intriso di una tecnica scrittoria ruvida, dalla punteggiatura florida e dai ritmi serrati. A pagina 137, per esempio, si assiste a uno splendido brano – collocato nel 1992 – sulle sensazioni nel tenere in mano una palla da baseball, che poi, come si sa, è quella famosa battuta da Thomson nel 1951.
Avevo in mano la palla da baseball. Di solito la tenevo nella libreria, incuneata in un angolo, tra libri diritti e libri obliqui, sotto una tenda di libri, senza tante cerimonie. Ma ora ce l’avevo in mano. Bisogna conoscerla, la sensazione di una palla da baseball nella mano, bisogna tornare un po’ indietro, collegare molte cose, prima di riuscire a capire perché si possa stare seduti in poltrona alle quattro del mattino con in mano un oggetto del genere, e stringerlo – il modo rassicurante in cui aderisce al palmo, il centro di sughero che la rende leggera, e le zone ruvide di una palla vecchia, la pelle segnata, il piacere con cui il pollice strofina pigramente il cuoio liso. Una palla da baseball la si strizza. La si spreme, per così dire, o la si munge. La resistenza del materiale pressato fa venir voglia di stringere più forte. C’è un equilibrio, una piacevole tensione animale tra l’oggetto di pelle dura e la mano ad artiglio, con le vene gonfie per lo sforzo. E la sensazione delle cuciture in rilievo sulla punta delle dita, contorni di filo simili a gobbi sotto le articolazioni delle nocche – il cotone ritorto che può esser visto come un’impronta di pollice ingigantita un ingrandimento delle spirali sul polpastrello del tuo pollice. La palla era color seppia intenso, impastata di terra, erba e generazioni di sudore – era vecchia, sbattuta, pesta, intrisa di tabacco e macchiata dal tempo e dalle vite che aveva alle spalle, chiazzata dalle intemperie e personalizzata come una casa in riva al mare. E aveva una striatura verde vicino al marchio di fabbrica Spalding, aveva ancora un piccolo livido verde nel punto in cui era andata a sbattere contro un pilone secondo la storia che l’accompagnava – vernice scrostata di un pilone imbullonato nelle tribune dell’area sinistra impressa sulla superficie della palla.
Sono le percezioni del protagonista principale di “Underworld” Nick Shay, del quale non c’interessa parlare delle plurime vicende in cui è coinvolto durante il lungo racconto, quanto invece era fondamentale accludere questa citazione, che ha a che vedere da vicino con il baseball, oggetto di questo articolo e del quale di certo DeLillo è stato con tale libro uno dei narratori più pregevoli ed evocativi.
Stefano Duranti Poccetti